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Luca Mastrandrea

FUOCO AMICO – Una storia di trincea…

8 anni ago written by
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Fuoco Amico

Non stava facendo niente. Aveva per il momento disattivato ogni procedura cognitiva articolata, lasciando che funzionasse in sottofondo la sola elementare routine di sopravvivenza su cui ora concentrava la sua attenzione. Inspirazione, espirazione, inspirazione ed espirazione. Pausa. Inspirazione. Pausa. Espirazione. Sentiva lo sterno alzarsi, il diaframma che consentiva, sollevandosi, il flusso di aria limitato allo stretto necessario. Aveva una t-shirt indosso.

Un flash da un remoto angolo della sua mente. Rovine intorno a sé, un villaggio apparentemente abbandonato. Riaffiorò il terrore e l'adrenalina. La paura. Esplosioni che rimbombavano nella sua testa, all'interno del casco.

Ora percepiva il pavimento su cui era adagiato. Si concentrò sulla propria mano sinistra e ne identificò la posizione lungo il corpo. Ne recuperò la funzionalità stringendo le dita al palmo e, lentamente, se la portò al viso.

Prese coscienza, gradualmente, del proprio corpo e di ciò che lo circondava. Inspirazione ed espirazione. Dolore lombare. Cercò di capirne l'origine che presto ricondusse alla durezza della superficie. Inconsapevolmente stava mettendo al loro posto alcuni pezzi di memoria che, poco per volta, gli riaffioravano nella testa, dando così un senso cronologicamente accettabile a domande che non poteva fare a meno di porsi:

dove si trovava,

perchè si trovava lì,

cosa aveva fatto prima di perdere conoscenza.

Nuovo flash. Paura. Cercò di trattenere ricordi fugaci che riaffioravano dolorosamente. Due punti rossi lampeggianti nel suo visore, due cecchini, ore 12 e ore 3, appostati al terzo piano e sul tetto dell'edificio, dietro i muri slabbrati dai mortai. Abbassò lo sguardo sul suo AK47. Il cuore ballava frenetico.

Se avesse dovuto spiegare il meccanismo logico per cui aveva capito, in un paio di secondi, dove si trovava – così rispondendo alla prima domanda -, ci avrebbe messo un'eternità. Aveva bisogno di raccogliere le sue forze e decidere in fretta, analizzando ogni dato che la limitata percezione della realtà allo stato gli consentiva. Era buio e mancava ogni riferimento spaziale affidabile, all'infuori di una lama di luce che filtrava da sotto una porta, alla sua sinistra. Riflettè sulla sostanziale inutilità del linguaggio come sistema di comunicazione, in termini di velocità. Per il momento, tenne in sospeso ogni speculazione, pur riproponendosi di ritornare, prima o poi, sull'argomento. Di solito appuntava con una memo vocale ogni pensiero che riteneva degno di un ponderato successivo passaggio di riflessione. Usava il suo telefono cellulare per questo. La bocca era impastata e la tempia sinistra cominciava a pulsare dolorosamente.

Un altro flash interruppe i suoi pensieri, un'altra tessera del puzzle. Nuovo terrore dallo schermo della sua mente. Il sangue del suo compagno che schizzava sul suo visore. Una luce nel diplay

interno del casco lampeggiava sulla sinistra in alto a conferma che le sue funzioni vitali erano al livello zero. Terrore e solitudine a cui nessun addestramento può prepararti. La saliva sapeva di ferro.

Il suo cellulare. Cominciò a cercarlo con la mano destra, che avvicinò alla tasca dei pantaloni cercando di infilare le dita in un pertugio che non riusciva a trovare. Provò e riprovò, mancando quella che pensava fosse una tasca ma era solo una piega del tessuto. Realizzò di indossare pantaloni privi di tasche. Fece tesoro dell'informazione.

Realizzò che le dita della sua mano erano completamente fuori uso. Insensibili. Se le portò alla bocca, togliendo faticosamente l'avambraccio da dove era bloccato, tra la porzione lombare della sua schiena ed il pavimento. Si rassicurò, ma doveva accertarsi che tutto fosse a posto, che tutto funzionasse. Scosse più volte la mano, prima lentamente e poi più in fretta, fino a che un fastidioso formicolio lo avvertì che stava raggiungendo un'accettabile sensibilità. Riprovò a cercare la tasca, risalì lungo la gamba. Capì di indossare una specie di tuta, con un elastico alla vita, di quelle che usano gli sportivi.

Altro flash. I sensori di allarme segnalavano la presenza di nemici. Lo stava aspettando, quel segnale. Stava andando incontro ad una imboscata. Cercò di recuperare le forze, il display delle sue funzioni vitali lampeggiava sul rosso. Il tempo passato dall'atterraggio, la lunga corsa sul mezzo articolato nella notte, l'irruzione nel villaggio all'alba avevano esaurito le sue scorte

energetiche. Stava morendo comunque, se non lo avessero ucciso prima.

Voltò lentamente la testa, con una fitta al collo che era rimasto troppo a lungo sul duro. Il pulsare della tempia gli fece annebbiare gli occhi. Un rapido bagliore intermittente sulla destra, leggermente in alto rispetto alla sua posizione, un minuscolo e ritmico flash di colore blu, che illuminava una porzione del soffitto ed il pavimento su cui si rifletteva, lo riportò alla realtà.

Alzò leggermente la testa e potè notare un altro piccolo flash che lampeggiava, verde e con intermittenza diversa dal primo.

Cercava di identificare il codice, cercava di associare la luce ad un messaggio, cercava di comprendere la situazione di pericolo. Capire cosa doveva fare. Ricordare procedure di emergenza, routine che, all'estremo, richiedevano il suicidio per non cadere prigioniero..

Tastò il pavimento con la mano destra fino ad incontrare un oggetto di plastica. Non era il suo cellulare Posò cautamente le dita sulla sua superficie e riconobbe i tasti di un telecomando. Sentì i tasti gommosi a rilievo, la forma a mezzaluna, i bordi arrotondati ed una impugnatura ergonomica che conosceva.

Stava raccogliendo le informazioni. Stava svegliando i suoi sensi. Solo una visione oggettiva gli avrebbe consentito una uscita sicura. Un rumore di passi che si avvicinavano alla porta, due gambe che fendevano lo spiraglio di luce bianca come due trampoli di un equilibrista. Sottili come funi all'inizio, poi sempre più ampie a

formare due nere colonne di ombra, che lanciavano lame di luce sempre più sottili. Cercò di ricordare cosa avesse fatto, chi lo avesse portato lì. Capì che non doveva essere lì. Cercò inutilmente un'arma alzandosi a sedere, il riflesso di un guerriero dopo anni di veglie in trincea. Era un operativo, ma non aveva armi adesso, solo i suoi pensieri. I suoi riflessi stavano acuendosi, ma quanto più consapevole diventava tanto più la disperazione montava nella frustrazione di una ineluttabile sorte. Avrebbe dovuto cambiare la sua vita quando ancora poteva disporne, avrebbe potuto farlo. Avrebbe sposato quella ragazza, incontrata in Afghanistan, di cui ormai non ricordava nemmeno il nome. Era vulnerabile, fisicamente, e sfinito psicologicamente. Si sarebbe arreso, senza condizioni, o avrebbe accettato la sorte. Era finita, in un modo o nell'altro. Missione terminata. I passi si fermarono. Capì che erano passati pochi secondi da quando aveva ripreso i sensi.

***                                             ***                                       ***

La voce sgradevolmente rassegnata di sua madre dietro la porta gli diceva che erano le undici, che la colazione era pronta da due ore e che era ora che si trovasse un lavoro.

Suo padre, alle tre di notte, aveva dovuto spegnere di nuovo la playstation mentre andava a pisciare.

-Typo

 
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